In soli tre anni l’archivio delle applicazioni del negozio virtuale della Mela è passato da 500 alle attuali 400 mila unità. Le persone che possiedono un apparecchio costruito da Apple sono 160 milioni, e ben 7 i miliardi di download effettuati solo nel corso dell’ultimo anno. Un successo così importante che Apple ha deciso di estendere l’accesso al negozio virtuale anche ai computer con OS X 10.6.6, diventando così lo Store uno strumento comune di tutti i dispositivi di Cupertino.
Apple non ha rilasciato numeri ufficiali (= soldi) sull’andamento delle vendite, ma Steve Jobs durante la presentazione dell’iPad 2 ha raccontato di aver pagato ben 2 miliardi di dollari agli sviluppatori di applicativi mobili e per Mac. E sapendo che Apple applica una “tassa” del 30% sull’utilizzo del suo negozio virtuale, è facile dedurre il guadagno di 850 milioni di dollari. Davvero non male per un negozio che non esisteva appena 3 anni fa.
Il concetto di negozio virtuale con software centralizzato non è una invenzione di Apple, infatti già nel 2002 Michael Robertson di Linspire aveva creato un sistema “Click-n-Run” a disposizione delle “distro Linux”, permettendo l’installazione di applicazioni direttamente dalla rete. Vennero così sviluppati utility come Red Hat Package Manager (RPM) o Advanced Package Tool (APT). Poco più tardi negozi online come Handango si affrettarono a dedicare una ampia sezione del negozio ai prodotti software del nuovissimo mercato degli apparecchi telefonici “intelligenti”.
Lo stesso Steve Jobs all’inizio della distribuzione nel 2007 del primo modello iPhone, sosteneva che fosse sufficiente per le applicazioni il Web 2.0, distribuite attraverso il protocollo HTTP. Ma appena poche settimane dopo il debutto del melafonino nel 2007, gli hacker e Jay Freeman (in arte Saurik), lanciarono l’applicazione Cydia e più tardi di conseguenza lo Cydia Store, il vero competitore dello Store ufficiale.
Apple ha intuito immediatamente il valore potenziale delle applicazioni, e piuttosto che cedere terreno agli hacker, ha lanciato lo Store ufficiale nel luglio del 2008. Il successo di questo negozio virtuale, sempre aperto e a disposizione degli utenti, ha obbligato subito i grandi attori del mercato mobile a munirsi di un proprio negozio virtuale. Da allora è iniziata anche una battaglia legale da parte di Apple per brevettare il nome “App Store”.
Il primo grande motivo di attrazione dello Store di Apple da parte degli sviluppatori è l’enorme archivio di oltre 200 milioni di account, completi di carte di credito, in grado di acquistare un software con un solo ckick.
Ad esempio gli sviluppatori di Pixelmater, un editor di immagini, hanno creato subito la versione del software per iOS e in soli 20 giorni hanno incassato più di un milione di dollari.
Ogni software house deve sviluppare un sistema legato allo store specifico, ma vendere nel negozio virtuale della Mela comporta l’accettazione di una serie di pesanti regole istituite a garanzia degli utenti, attraverso un controllo di qualità e attendibilità di ogni venditore.
Gli sviluppatori decidono autonomamente il costo delle applicazioni, la più parte di queste sono sotto i 10 dollari, e solo qualcuna arriva a costarne centinaia. La stessa Apple “suggerisce” un prezzo sempre basso, non a caso ha “spacchettato” la suite iWork da 80 dollari, nei suoi componenti principali, ad un costo unitario di 20 dollari.
Infatti abbassare i prezzi non significa affatto guadagnare meno: l’uso di un negozio virtuale abbatte i costi classici, come distribuzione, stampa e quant’altro per costruire fisicamente la scatola completa da esporre sullo scaffale in un negozio classico.
L’App Store ha creato così un vero esercito di sviluppatori (anche alla prima esperienza), che non necessitano di lavorare in una azienda software del settore, o di doversi preoccupare di piazzare il proprio prodotto. Basta una buona idea, l’utilizzo della piattaforma di sviluppo, e a tutto il resto ci pensa lo Store. Con solo poche eccezioni : “L’App Store non sostituisce il marketing e nemmeno la pubblicità, compiti lasciati ai diretti interessati, che possono seguire direttamente gli utenti, anche con il classico supporto”, ha dichiarato Greg Scrown, il fondatore di Smile Software.
Sicuramente la famosa quota del 30% di commissione da lasciare alla Apple rimane la più alta tassa che gli sviluppatori devono pagare in tutto il settore (insieme a Facebook). Google si “accontenta” infatti di un misero 5%, cifra per ora imbattibile, forse anche per dopo.
Apple fornisce ai propri clienti sviluppatori intere statistiche e report quotidiani di vendita, pagamenti veloci, ma nessun tipo di dato specifico della clientela: niente nome, email o informazione anagrafica. Come del resto fanno le catene di negozi classici. Agli sviluppatori è lasciata la possibilità di chiedere informazioni agli utenti, ma senza l’obbligo di verifica (come la carta di credito) e quindi con la libertà agli utenti di inserire qualsiasi dato non verificabile.
Il 30% di commissione su applicazioni sofisticate e quindi più costose, appare molto sproporzionato. Sono di questo parere gli sviluppatori di grandi software house, come Microsoft e Adobe, che contestano alla Apple di non portare nessun valore aggiunto con la semplice vendita passiva.
Anche se ormai i giorni dei software inscatolati sugli scaffali sembrano davvero pochi, si continuerà per un certo periodo ancora con la vendita classica e quella digitale.
Lavorare nello Store di Apple implica l’ingresso selettivo in un ambiente chiuso, con poche libertà di movimento. Ogni particolare è stato studiato nei minimi dettagli, a cominciare dalla libera scelta di Apple se autorizzare o meno l’ingresso di uno sviluppatore nel club dei software per gli apparecchi della Mela. Alcune volte i software vengono bocciati perché non rientrano negli standard richiesti sulle norme di sicurezza, ma molte altre la bocciatura appare sommaria e soprattutto senza una reale e convincente spiegazione (come il caso di Flash).
Alla comodità di avere tutto gestito dal negozio virtuale, si sta contrapponendo la burocratica e lunghissima fila davanti all’ufficio “Approvazioni” di Cupertino, fila di tante settimane che ogni software deve fare per essere autorizzato anche per un semplice aggiornamento.
Inoltre non è possibile aggiornare applicativi rilasciati prima dell’arrivo dell’App Store, come ad esempio con Aperture, che il negozio rileva come installato, ma non aggiornabile. Ad oggi Apple sta bloccando gli sviluppatori che cercano servizi in abbonamento, aggiornamenti, manutenzione e accesso a funzioni al di fuori dello Store ufficiale.
Gli sviluppatori di software per i computer della Mela non sono tuttavia così vincolati all’App Store come avviene invece per i prodotti con sistema iOS.
L’approccio adottato da Apple verso chi sviluppa software su Mac App Store è molto più semplice rispetto al controllatissimo ambiente iOS. La motivazione ufficiale è che alcuni applicativi potrebbero compromettere gravemente le prestazioni dell’iPhone o del tablet iPad, interferendo con altre applicazioni, magari a scapito della sicurezza stessa.
Problemi non presentabili invece sui potenti processori dei computer della Mela, oltretutto in un modello consolidato di sicurezza sui computer classici dove è richiesta ad esempio una password di amministrazione prima di procedere a installazioni magari non autorizzate.
Chi deve sviluppare dei nuovi software sul Mac App Store, pare non avere particolari difficoltà da seguire, mentre i problemi li hanno quasi tutti quelli che hanno sviluppato del software prima dell’arrivo dello store. Ad esempio tutte quelle applicazioni che richiedono un’autorizzazione a livello di utenza amministrativa per potere funzionare vengono probabilmente bocciate dalla severissima Commissione di Cupertino, per aver infranto la regola del “divieto di chiedere permessi amministrativi per funzionare“. Vengono ammesse pochissime eccezioni, ma solo dopo aver dimostrato e documentato tali necessità e senza valide alternative.
Addirittura alcuni software vengono rimossi settimane dopo essere stati validati e quindi pubblicati, come accaduto a QuickPick, accusata di avere sviluppato un software troppo simile a Launchpad di Apple.
Gli sviluppatori definiscono questi atteggiamenti di Apple come dei capricci privi di vere motivazioni, e molti di loro chiedono un’alternativa open source, sganciata dal controllo di Apple. Ad oggi l’unico modo possibile è con Cydia, che ospita tutti i software bocciati da Cupertino, e applica commissioni praticamente nulle, e con nessun vincolo di sorta.
I sostenitori della filosofia open source sono preoccupati perché convinti che Cupertino cercherà nel tempo di bloccare ogni tentativo di “piratare” i propri apparecchi, permettendo a un solo canale di comunicare con l’unico Store autorizzato.
Eppure nonostante il fuoco incrociato a cui è sottoposta la severissima Commissione di Apple, le critiche, le lamentele, i problemi post pubblicazione, la politica troppo severa di controllo, lo store di Apple continua a crescere costantemente.
Ci sono ancora milioni di utenti che non hanno aggiornato il computer alla versione 10.6.6, in pratica milioni di clienti potenziali che prima o poi arriveranno sicuramente sullo store virtuale delle applicazioni.
Il futuro di Cupertino si è consolidato con il migliore sfruttamento di un negozio virtuale, ma con risultati molto concreti, ben oltre quanto si potesse immaginare appena pochi anni addietro.